Wednesday 1 August 2012

Il Libro Scritto In Rosso - parte prima




La Contea era una terra ricca di storie, ma erano storie vecchie, anzi antiche. Ne parlavano solo i libri di storia nelle biblioteche polverose e vuote dei nobili, scambiandosi, con gli altri libri, segreti sussurrati nel silenzio della notte. E i pochi menestrelli girovaghi che traversavano la Contea, diretti magari verso i Porti Luminosi per imbarcarsi verso terre più ricche di miti o ancora giovani e affamate di antiche racconti. Una di queste storie, scritta in inchiostro rosso, contenuta in un libro ormai andato perduto, parlava di Ancrisia e Parmane e del loro destino.
Ancrisia, figlia di Carade, re di Tannaria, visse in un'epoca antecedente la formazione della Contea. Allora la conformazione di quelle terre era completamente diversa e i luoghi erano chiamati con nomi che poi sarebbero stati dimenticati. Tannaria sorgeva al confine sud delle Terre del trifoglio, che sarebbero state poi conosciute come Prati degli Antichi, dopo che la migrazione dall' est di coloro che avrebbero costruito Norges avesse raso al suolo la citta'. Il piccolo regno di Carade era ricco e protetto da numerosi, forti guerrieri vestiti di cotte a scaglie di bronzo ed elmi crestati dall'aspetto spaventoso. Con le loro lance di legno di quercia avevano piu' volte respinto i nemici oltre i confini, rendendo questi sicuri e stabili. Il popolo viveva di pastorizia, oppure commerciava il vasellame che produceva con coloro che abitavano lungo le sponde del fiume Linnosante, scambiandolo con pesce o prugne essiccate o sale scavato nelle miniere delle Terre dei Vagabondi.
Il destino di Ancrisia parve segnato al compimento del suo quattordicesimo anno di eta'. Proprio mentre il padre iniziava ad organizzarne la ricerca di un marito, la ragazza cadde malata. La malattia era tale che lasciava poche speranze, e cosi' terribile che a pochi fu permesso di conoscerne i dettagli e quei pochi furono sottoposti a giuramento di non parlarne ad alcuno. La madre di Ancrisia fu preda della disperazione e non volle piu' lasciare le sue stanze, Carade stesso passava le giornate a tormentarsi sul destino della figlia senza sapere cosa fare per aiutarla. La malattia della fanciulla fu tenuta segreta, in quanto Carade non aveva altri figli o figlie a cui potesse essere passato il trono. Su consiglio del mago di corte, fu annunciato che Ancrisia non avrebbe lasciato le sue stanze fino al giorno del matrimonio, in quanto non avrebbe piu' incontrato alcun uomo fin quando il suo futuro marito non fosse stato di fronte a lei. Ma insospettiti dal dolore dei genitori, molti iniziarono a mormorare che non fosse quello il reale motivo.
E mentre le ricerche del marito per Ancrisia procedevano volutamente rallentate, i mormorii divennero sussurri nel buio, e i sussurri piani per spodestare Carade. Nella citta' l' atmosfera divenne cupa e il sospetto striscio' nelle sue vie, mentre i vari partiti si andavano formando, con alleanze e promesse e accordi contro gli alleati.
Poi, un giorno, tre mesi dopo che Ancrisia si era ammalata, Parmane giunse a palazzo. Parmane era un pastore, della stessa eta' di Ancrisia, anzi era nato lo stesso giorno della ragazza, ma mentre lei era stata partorita al mezzodi' del Solstizio di Primavera, Parmane era stato partorito nel buio della mezzanotte. Il giovane viveva sulle colline al confine del regno, ed aveva camminato per quattro giorni per raggiungere Tannaria, seguendo le istruzioni di sua madre.
Si presento' alla porta del palazzo e disse che voleva appellarsi alla Giustizia del Re. Siccome in quell'epoca chiunque poteva appellarsi al re, fu fatto entrare e condotto alla presenza di Carade, che sedeva solitario nel boschetto sacro cercando senza riuscirci di pregare i suoi alari.
-Che vuoi, ragazzo?- chiese Carade, che nonostante il dolore non sarebbe mai venuto meno ai suoi doveri.
-Mia madre e' una veggente-, disse Parmane, ripetendo parola per parola il discorso che sua madre gli aveva fatto mandare a memoria. -Ha fatto un sogno. E nel sogno tua figlia era malata e orrendamente sfigurata.
Il cuore di Carade ebbe un balzo, perche' nessuno fuori del palazzo sapeva della natura della malattia di Ancrisia.
-Mia madre mi ha detto che avrei parlato con te nel luco, e che tu mi avresti ascoltato perche' nulla ti e' piu' caro su questa terra di tua figlia. Mia madre ha sognato un uomo, che vive nelle terre piu' lontane del Meridione, un uomo di conoscenza e di potere, sempre in cerca di nuovo sapere. Ma il suo cuore e' nero, come la pietra della torre in cui vive e le vesti che indossa. Lui conosce la cura per la malattia di tua figlia.
"Per curare tua figlia dovrai recarti da lui, ma non chiedere il suo aiuto perche' non lo otterrai. Ma avrai da lui la cura se soddisferai tre richieste, non da parte dell'Uomo Nero ma di una potenza che guida le nostre vite. Ma dovrai stare in guardia, perche' l'Uomo Nero cerchera' di ingannarti.
Carade rimase in silenzio, fissando il ragazzo. In realta' aveva smesso di ascoltarlo non appena udito che qualcuno conosceva il modo per curare sua figlia. Con un cenno comunico' a Parmane di seguirlo e lo condusse nel cuore del palazzo, nella sala dove teneva udienza coi suoi capitani e consiglieri.
-Tua madre sa dove trovare quest'uomo?- chiese il re al ragazzo..
-Mi ha detto di dirti che lo troverai nella Casa dei Sussurri, che sorge ai piedi del Monte delle Bestie.
Carade fremette, perche' conosceva quei luoghi. Non di persona, ma si narravano molte storie sugli Otto Dominii Meridionali, un regno retto da otto sovrani, potenti re-stregoni. I Dominii erano terre abitate da un popolo crudele, dedito all'adorazione di divinita' malvage che richiedevano sacrifici umani. Lo straniero che ne avesse varcato i confini non invitato, molto facilmente sarebbe finito rinchiuso nelle baracche degli schiavi, oppure legato su una pietra sacrificale.
-C'e' altro che tua madre ti ha detto?
-No, mio signore.
Carade annui'. -Recati nelle cucine, e prendi tutto cio' di cui hai bisogno. Prendi anche qualcosa per ripagare tua madre del suo avvertimento.
"Vai.
Parmane annui' e lascio' il re da solo.
Carade, fremente nello spirito, prese a passeggiare in lungo e in largo nella sala. Sfioro' tutti gli scranni, sosto' sotto ognuno dei numerosi scudi appesi alle pareti, si fermo' ad osservare la trama di un grande arazzo cercando fra i suoi intrecci una risposta al suo dilemma. Perche' anche se adesso sapeva dove cercare la cura per sua figlia, essa rimaneva comunque irraggiungibile. Indipendentemete da chi avesse inviato a sud, per numero, sapienza o forza, nessuno avrebbe fatto ritorno dagli Otto Dominii.
Infine, quando ormai il pomeriggio sfumava nella sera, Carade fece venire il mago di corte, nella speranza che l' uomo avesse quella soluzione che lui non riusciva a trovare. E cosi', seduti uno di fronte all'altro nell'angolo piu' lontano e in ombra della sala, il re racconto' al sapiente cio' che aveva appreso da Parmane. Il mago, un uomo di eta' indefinibile proveniente dalle montagne a nord, le Punte Aguzze, ascolto' in silenzio il suo re. Infine chiese: -Hai gia' mandato via il ragazzo?
-Si'.
Il mago scosse il capo, fissando meditabondo il pavimento, un gomito appoggiato ad una gamba e il bordone intarsiato adagiato nell'incavo dell'altro braccio. -Peccato. Mi sarebbe piaciuto parlargli.
"Non importa. E' questo tutto cio' che ti ha detto? Che questo sapiente dei Dominii possiede la cura per tua figlia?
Carade annui'.
-Che intendi fare?- chiese il mago.
-Pensavo tu mi avresti consigliato!
Il mago sorrise. -E cosa potrei consigliarti? Di mandare incontro a morte certa uno dei tuoi migliori guerrieri? Magari il piu' fedele di loro? Conosciamo entrambi le storie che si raccontano sulle genti di quella terra.- E scuotendo la testa aggiunse: -Ma non hai molte alternative. Non credo che inviare una richiesta tramite qualcuno dei mercanti che sono autorizzati a varcare i confini degli Otto Dominii possa essere di qualche utilita'. Perderemmo solo tempo nell'attesa di una risposta che forse non arriverebbe.
Gli occhi grigi del mago si fissarono negli occhi del re. -Trova qualcuno da mandare in quelle terre. Io nel frattempo cerchero' un'altra soluzione, sperando esista.
E cosi' Carade riuni' i suoi migliori guerrieri, gli uomini piu' fedeli e fidati. Spiego' loro la situazione, dove potesse essere il rimedio, e chiese un volontario. I primi due ad offrirsi, solo perche' furono i piu' veloci, perche' nessuno di quegli uomini si sarebbe mai tirato indietro e nessuno lo fece quel giorno, furono Maraco di Tsobor e Affium, uno straniero giunto da uno dei regni dell'est.
Carade li fisso' in silenzio, triste in cuore perche' nel profondo era sicuro che non avrebbe piu' rivisto quei due valorosi, poi annui e disse: -Andrete insieme, cosi' potrete esservi di aiuto l'un l'altro.
E cosi' i due partirono, il giorno successivo, viaggiando a dorso d'asino, perche' a quei tempi nessuno ancora montava i cavalli, che venivano usati solo per trainare i carri da guerra. Sarebbero stati poi i fondatori di Norges, giungendo dall' Est, a mostrare a tutti che i cavalli erano un utile strumento di guerra, piu' adatto a trasportare un solo uomo che a trainare un pesante sebbene robusto carro da guerra. Veloci e spietati avrebbero travolto nella loro cavalcata ogni citta', ogni ostacolo, ogni avversario si fosse parato loro davanti, attraversando il continente da un mare all'altro, per poi stanziarsi nell'Ovest, imporre la loro cultura e fede e ridisegnare i confini e gli equilibri di tutte quelle terre, dalle ghiacciate coste del Nord fino alle arse terre affacciate sul Mare del Sud, terre di cui in una furia mossa da una fede cieca avrebbero fatto un deserto.
E cosi' Maraco e Affium lasciarono Tannaria, uscendo dalle sue mura di mattoni cotti in fornaci prima del sorgere del sole, diretti verso sud, stolidi e silenziosi, consapevoli di cio' cui andavano incontro. Si diressero prima verso sud-est, fino a raggiungere il Linnosante, di cui seguirono il corso. E seguendo il fiume attraversarono terre popolate di piccole comunita' insediate sulle sue sponde, divise da distanze che talvolta richiedevano giorni per essere coperte, dove non c'erano strade ne' sentieri, se non quelli segnati dagli animali, i cui percorsi erano diversi da quelli umani cosi' come diversi erano i loro intenti. Camminarono per prati, giovani boschi e canneti che si stendevano per chilometri a fianco del fiume dallo scorrere pigro. Talvolta, quando furono fortunati, poterono usufruire del servizio di una chiatta che discendeva un breve tratto navigabile del fiume, ma piu' spesso acquitrini di cui non si vedeva la fine li costrinsero a lunghe deviazioni che li portavano cosi' distanti dal fiume che poi era difficile ritrovarlo perche' magari il suo corso aveva compiuto una deviazione che lo portava nella direzione opposta alla loro.
In occasione di una di queste deviazioni, giunsero, sul far della sera, ai piedi di un colle, un' altura solitaria dall' aspetto brullo. Nessun albero cresceva sui suoi crinali, cosparsi di rocce biancastre e grigie che affioravano numerose, grandi e piccole, dal terreno coperto di licheni e cespugli di ginestrone. Si era quasi in estate, della gialla e copiosa fioritura del ginestrone rimanevano solo pochi singoli fiori su qualche ramo. Solo sulla cima una corona di cipressi ornava il colle come una corona ornava la testa di un re. I due non lo sapevano, ma la gente che viaggiava per quel territorio chiamava il colle con la sua ghiera di cipressi il Teschio Incoronato, anche perche' il colle, per colui che vi si approsimava arrivando da sud, aveva la conformazione di un teschio.
-Accampiamoci sulla vetta, stanotte-, suggeri' Maraco. -Siamo vicini alle mie terre, forse con l' alba saro' in grado di riconsocere qualche punto di riferimento.
Affium non disse niente, perche' anche se il Linnosante era lontano sulla loro sinistra, i suoi luoghi natii erano giusto al di la' del fiume, ed una triste nostalgia lo aveva preso e gli pareva di riconoscere, negli odori portati dal vento, quelli di dove era cresciuto, e fra questi l' odore che sprigionava dalla legna di un particolare acero che cresceva solo la' e che la sua gente bruciava sul far della sera per scacciare l'umidita' dalle case. E questo gli aveva fatto pensare che non avrebbe piu' avuto occasione di rivedere la sua casa, perche' dal Meridione non avrebbe fatto ritorno.
I due salirono sul colle, varcarono il circolo di giganteschi cipressi per lo piu' morti, e si ritrovarono sulla cima piatta del colle. Al centro esatto una costruzione di pietre tagliate, un portale ormai in rovina, dava accesso ad uno spazio sotterraneo, una grotta naturale buia e silenziosa. Era l'imbrunire, il sole era ormai tramontato e l'oscurita' saliva lenta dal suolo, inghiottendo piano piano ogni cosa. Lontano a ovest una catena montuosa non molto alta si stendeva lungo tutto l'orizzonte. Ai suoi piedi brillavano le luci di alcuni fuochi domestici, la' dove il buio gia' nascondeva i particolari, mentre dove ancora la luce riusciava a giungere da oltre l'orizzonte piegato, si vedevano i profili irregolari dei monti, coperti di boschi interrotti da ampi pascoli.
Nessuno dei due commento' cosa avevano trovato sulla cima del colle, sebbene consapevoli si trattasse di una tomba. Una tomba antica, probabilmente di quel popolo pre-umano che le leggende dicevano avesse abitato tutte le terre fra le Punte Aguzze e il Linnosante. Prepararono il campo, accesero il fuoco e mangiarono carne secca e pane non lievitato. Poi si sistemarono per la notte. Ma entrambi non riuscivano a dormire. Cosi' si levarono, e preso ciascuno un ramo a mo' di torcia, si accinsero ad esaminare l'antica sepoltura.
Discesero alcuni scalini intagliati nella roccia sgretolata dal ruscellare dell'acqua. Un tempo l'accesso alla scala doveva essere stato chiuso da una porta, ma ora non ve ne era piu' traccia. Dopo l'ultimo scalino frono in una sala vagamente circolare, di pochi metri di raggio. Nel punto piu' lontano da loro videro un trono, completamente in pietra, su cui giacevano i resti quasi irriconoscibili di cio' che era stato una mummia. Qualche pezzo d'osso era sparso sul pavimento, mentre frammenti di metallo e forse pelliccia erano mescolati alle polveri sullo scranno. La desolazione riempiva il resto della sala, depredata ormai da innumerevoli anni: rimaneva solo polvere e terriccio e foglie secche di cipresso portate li' dentro dal vento. Escrementi di animali che avevano occupato il luogo temporaneamente, i segni dell'acqua ruscellatavi dentro durante qualche forte temporale e niente altro: questo era il tesoro contenuto dalla tomba.
Piu' delusi che sollevati i due tornarono all'aperto, si stesero ed infine dormirono, lasciando che il fuoco si spengesse. Entrambe sognarono quella notte, ma dimenticarono i loro sogni al risveglio, e quando l'alba giunse Maraco osservo' attentamente il panorama umido di banchi di nebbia che il sole andava tingendo di rosa.
La catena montuosa correva verso ponente allontanandosi da loro. E questo disse a Maraco che erano in prossimita' del Passaggio a Ponente, accesso alle Grandi Praterie, abitate dai selvaggi Navii, cacciatori di antilopi, uomini piccoli e d'aspetto infantile, ma battaglieri e insensibilmente crudeli. Nessuno cercava di avere rapporti coi Navii, che consideravano la Gente Alta come una differente razza, quindi da trattare alla stessa stregua degli animali. C'erano anche viaggiatori che raccontavano di aver visto i propri compagni uccisi e mangiati da una qualche tribu' navii, ma se fosse vero questo Maraco non lo sapeva.
Se loro si trovavano vicino al Passaggio a Ponente, il Linnosante era molto lontano dalla lor attuale posizione, si disse Maraco. In realta' non erano cosi' prossimi al Passaggio bensi' a mezza via fra esso ed il Linnosante. Ma nessuno aveva neanche pensato, all'epoca, di disegnare una mappa di quelle terre, cosi' difficilmente ci poteva rendere conto di quali realmente fossero le distanze e la propria posizione relativamente. Non esistevano bussole, solo i marinai conoscevano la posizione delle Stelle Fisse; esistevano l'Oriente e l'Occaso, dove il sole sorgeva e tramontava, il Mezzogiorno la' dove il sole si levava a meta' del di' e la Mezzanotte per indicare il punto in cui il sole non arrivava mai. Viaggiare era difficile, facile perdere l'orientamento, specialmente se il cielo era velato di nubi. Chi era costretto a viaggiare lo faceva mal volentieri e seguendo solo piste conosciute, perche' ogni luogo sconosciuto poteva celare un pericolo inaspettato; e quando si era costretti a recarsi in terre mai visitate si ricorreva ai servizi di guide esperte, uomini selvaggi quasi quanto gli animali di cui indossavano le pelli, che vivevano all'aperto tutto l'anno e conoscevano tutti i trucchi per orientarsi e trovare cibo e riparo.
-Ci siamo allontanati molto dal fiume-, disse Maraco. -Propongo di camminare verso Mezzogiorno, poco importa se devieremo sulla destra o la sinistra, perche' comunque piu' avanti il Linnosante scorre da levante a ponente e lo incontreremo sicuramente.
"Solo sara' bene non avvicinarvisi troppo, perche' sull'altra sponda ci sono le Terre dei Vagabondi.
E cosi' i due guerrieri mossero verso mezzogiorno. Camminarono per giorni in un territorio ondulato, qua e la' pianeggiante, percorso da ruscelli e piccoli fiumi, in cui usando le lance riuscivano facilmente a pescare trote e altri pesci con cui sfamarsi. Le sponde di quei corsi d'acqua erano inoltre rigogliose di numerose erbe selvatiche, nutrienti e dissetanti, che crescevano in mazzi numerosi e potevano essere facilmente raccolte e consumate crude durante il cammino. Quelli furono in realta' i giorni piu' facili del loro viaggio, i meno faticosi e quelli durante i quali si nutrirono meglio, tant'e' vero che misero su anche un chilo o due di peso.
Poi i monti tornarono ad avvicinarsi, annunciando che la catena era quasi al suo termine, il Linnosante prossimo, e le calde terre del meridione sempre piu' vicine. Non gli Otto Dominii, quelli erano ancora molto lontani, ma oltre il Linnosante la terra cambiava, si faceva arida e le temperature crescevano, rendendo piu' difficile la coltivazione del suolo, e gli animali di grossa taglia scomparivano quasi del tutto. Temendo i bruti chiamati Vagabondi, primitivi e sanguinari, ultimi delle razze preumane abitanti un tempo il continente, Maraco e Affium contornarono gli ultimi contrafforti dei Tsobor, procedendo parallelamente al Linnosante verso Ponente. Quando gli Tsobor divennero una linea a malapena continua di basse ondulazioni collinose li abbandonarono, cercando di puntare quanto piu' precisamente possibile a meta' fra strada fra Mezzogiorno e Ponente. Cosi' avrebbero evitato le Grandi Praterie tenendosi al contempo a debita distanza dal Linnosante e le Terre dei Vagabondi.
E mentre l'estate progrediva il loro viaggio progredi' di pari passo: i monti Tsobor scomparvero alle loro spalle, nel cielo gli avvoltoi si sostituironoai falchi e sulla terra distese a perdita d'occhio di cespugli spinosi si sostituirono ai boschi e ai prati. Infine una citta' comparve all'orizzonte di fronte a loro.
Era la citta' di Tinn-Iddinh, bastione fortificato del popolo dei Torod. I Torod, uomini dalla pelle olivastra, astuti e avidi, coltivavano agrumi e pistacchi, la vite e l'olivo nella fascia di terra giusto oltre il Linnosante, dalle Terre dei Vagabondi fino al mare. Costruivano citta' cinte da mura di pietre non squadrate lungo i confini, le strade mercantili e sulla costa; il loro entroterra era invece disseminato di grandi masserie, anch' esse fortificate e inacessibili, nelle quali vivevano anche centinaia di persone, dedite alla coltivazione della terra. Erano i Torod che estraevano il sale dalle miniere nelle Terre dei Vagabondi, coi quali erano in lotta fin dall'inizio dei tempi. I loro miti raccontavano delle sanguinose battaglie combattute per strappare quelle terre alle tribu' di Vagabondi e ai giganteschi orchi che vivevano nelle numerose caverne di cui il territorio era disseminato. La ricca tradizione orale dei Torod parlava del loro arrivo via mare da una terra sconosciuta dell'Occaso, dell' insediamento sulla costa alla foce del Linnosante e della lenta colonizzazione delle terre risalendo il suo corso, dove via via piantavano gli alberi e le viti che avevano portato con se' dalla madre patria. Molto tempo prima avevano infine occupato tutto quel territorio a loro congeniale, relegando i Vagabondi nella plaghe quasi sterili dove tutt'ora vivevano, dove li avevano lasciati indisturbati fino alla scoperta delle miniere di sale.
Tinn-Iddinh era la piu' grande delle citta' dei Torod, l'unica presente sulla riva destra del Linnosante, centro commerciale da cui partivano e arrivavano le merci per e da il nord. E soprattutto fortezza dell'unico ponte sul Linnosante. I due uomini vi si avvicinarono con senso di timore, tanto piu' grande di Tannaria era Tinn-Iddinh, e pensando a come dovessero essere le citta' del Meridione, al cui confronto la citta' dei Torod si diceva fosse un piccolo villaggio. Le sue mura alte quattro volte un uomo di grande statura, intervallate di torri circolari su cui garrivano i narchis, gli stendardi fatti di numerose striscie colorate che il vento agitava in un frenetico arcobaleno contorcentesi, incombettero su Maraco ed Affium quando questi si approssimarono alle imponenti porte di legno scuro. Le guardie alla porta, vestivano corazze di cuoio bollito, ed elmi conici sempre di cuoio rinforzato da stecche di legno. I loro scudi pitturati con calce bianca giacevano appoggiati alle rocce delle mura e loro stessemantenevano pose comode e tutt'altro marziali. Piu' conce ad un rapinatore di strada che ad un soldato. Ma i loro occhi scrutarono i due attentamente, valutando il loro armamento e modo di muoversi. Non chiesero niente, ne' pretesero pagamento alcuno, ma l'impressione che i due viaggiatori ebbero fu che il loro comportamento fosse dovuto alla mancanza di voglia prodotta dalla calura pomeridiana, e che in una differente occasione avrebbero potuto decicedere di spogliarli di tutti i loro beni.
Fu cosi' che Maraco ed Affium entrarono a Tinn-Iddinh, la piu' grande delle citta' costruite dai Torod. Non potevano immaginare che uno di loro non avrebbe lasciato quella citta' per riprendere il viaggio verso il Mezzogiorno.

Mentre i due guerrieri avevano intrapreso il viaggio in cerca dell'Uomo Nero, Sursa, il mago di Carade, aveva seguito una sua sensazione. Sursa non era dotato di preveggenza, ne' poteva vedere in sogno cose che accadevano lontano da lui, o indovinare segreti celati agli uomini, ma spesso uno strano istinto, una sensazione che gli si annidava come un sapore ai lati della lingua, lo metteva in guardia sulla possibilita' che accadesse qualcosa che lui non poteva mancare. Aveva imparato a seguire quell'istinto che non lo lasciava insoddisfatto fin quando l'evento non aveva avuto luogo, e cosi' aveva preso a frequentare il mercato tutte le mattine, aggirandosi fra le bancarelle e i recinti degli animali, e poi la riva del fiume la sera, dove gli abitanti di Tannaria andavano a lavarsi alla fine della loro giornata. Cosa aspettava, cosa cercava non lo sapeva. Ma sapeva che doveva guardare accuratamente ogni volto che incontrava, ascoltare ogni voce e ogni verso d'animale. L'evento stava per comoiersi e lui non lo doveva mancare.
Fu il mattino del decimo giorno, mentre si incamminava tra le bancarelle del mercato, che una voce di giovane donna si levo' in un grido dalla direzione da cui proveniva. Quella sensazione di gusto ferrugginoso in bocca che non lo abbandonava da giorni si intensifico', e fermatosi con uno scatto si volse a scrutare nella direzione da cui era giunto il grido. Non individuo' la donna che aveva gridato, forse solo per richiamare un bambino o l'attenzione di una amica, ma vide un ragazzo alto e dai capelli neri, la pelle piu' abbronzata del normale fra la popolazione della Terra del trifoglio, vestito di pelle di capra, che stava come incantato a fissare la strada del mercato. Quando i suoi occhi si posarono sul viso distratto del ragazzo, Sursa seppe che l'evento era accaduto e la sensazione ai lati della lingua scomparve.
A passo svelto Sursa si avvicino' al giovane, temendo che il ragazzo decidesse improvvisamente di scomparire di corsa in un vicolo.
-Ragazzo-, disse Sursa gentilmente quando gli fu vicino. -Cosa guardi?
Il giovane si riscosse e stupito volse i suoi grandi occhi neri verso il mago.
-Mi scusi, signore. Non stavo facendo niente di male. Mi ero solo distratto.
Sursa sorrise. -Certo che non facevi alcunche' di male. Ti ho solo chiesto cosa guardavi con tanta attenzione.
Il ragazzo torno' a guardare nel punto precedente, sollevando una mano per indicare, ma il suo braccio si fermo' a meta' del gesto e la sua bocca si apri' in una O.
-Non c'e' niente... Mi era sembrato ci fosse una ragazza in quell'angolo in ombra. Una ragazza che si versava acqua sulle spalle e le braccia usando una ciotola di legno.
Nella mente di Sursa baleno' l'immagine di Ancrisia, che nel suo giardino privato passava la maggior parte del tempo vicina alla fonte, raccogliendone l'acqua fresca in una larga e bassa ciotola di legno per versarla sulle orribili suppurazioni che le coprivano il corpo per affievolirne i bruciori. Ancrisia che piangeva ininterrottamente mentre lo faceva, Ancrisia che soffriva senza alcuna colpa. Ancrisia che pagava per un volere malevole, o che era stata scelta da qualche potere superiore quale emblema di uno scopo misterioso.
Sursa fisso' il ragazzo, la sua mente un subbuglio di idee e possibilita'. La forzo' a tacere, ad aspettare, a non precorrere i tempi con fuorvianti idee preconcette e scenari immaginati.
-Tu non vivi in citta' ne' in uno dei paesi vicini-, disse il mago.
-No, signore. Vengo dalle colline a Levante, sono un pastore. Mi chiamo Parmane.
Il mago annui'.
-E cosa fai qui in citta'?
-Mia madre mi ha mandato qua in cerca di un lavoro.
-Ho io un lavoro, se ti interessa.
-Certo che mi interessa, signore-, rispose entusiasta il ragazzo incredulo di tanta fortuna.
Fu cosi' che Sursa condusse Parmane alla sua casa, non distante dal palazzo di Carade. In cambio di vitto, un pagliericio a fianco del focolare e una piccola paga, Parmane inizio' a prendersi cura delle cose del mago. Da principio si tratto' solo di pulire e riordinare le stanze dove il mago dormiva, talvolta mangiava e riceveva gli ospiti, che non erano molti, e dato che questo non richiedeva se non una parte della giornata, Parmane curava anche l'orto e svolgeva commissioni per Sursa. Col tempo le mansioni di Parmane divennero piu' specifiche: Sursa lo istrui' riguardo le erbe che coltivava, su quando raccoglierle e come trattare le varie parti e lo fece lavorare nel giardino delle erbe, dove prima non poteva neanche strappare le infestanti; gli fu concesso di accedere al laboratorio per riordinare e pulire; le commissioni divennero da semplici acquisti di cibo vere e proprie missioni per procacciare erbe ed alti prodotti che il mago non poteva provvedere nella sua abitazione.
Poi, una sera, Sursa accese il fuoco nel caminetto. Per scacciare un poco di umidita' dalla stanza, disse. Parmane ne approfitto' per arrostire alcune verdure e del pane per cena, che i due mangiarono accompagnandolo con birra scura e amara delle terre a nord, bevanda che il mago preferiva al vino piu' tipico fra la popolazione di Tannaria.
Finita la cena Sursa chiamo' il ragazzo.
-Mi serve il tuo aiuto-, disse. -Siedi qui di fronte al fuoco.
Parmane sedette sulla panca che Sursa aveva tirato davanti al caminetto, uno sguardo interrogativo rivolto al mago che gli passo' alle spalle.
-Fissa il fuoco senza distogliere lo sguardo, fissa un solo punto e non lasciare che niente, ne' lingua bianco di fuoco ne' scintilla volante ti distraggano o attirino la tua attenzione.
Sursa continuo' a parlare, con voce bassa e calda come il fuoco che Parmane stava fissando. Si chino' sulle spalle del ragazzo ed accosto' la bocca al suo orecchio. Sussurrando prosegui' a parlare del fuoco, mutevole e cangiante, portatore di vita e di morte, salvezza per l'uomo e fonte di disperazione. Racconto' dei Grandi Fuochi che ardono nelle voragini che dividono il mondo degli uomini da quello degli dei, impedendo ai primi di raggiungere le terre dove non esiste la morte; racconto' del Serpente di Fuoco, figlio di Argak, Signore della Disperazione, che verra' scagliato contro l'umanita' durante l'Ultima Battaglia alla Fine dei Tempi e consumera' il mondo intero e i suoi abitanti; racconto' di Chioma di Fuoco, la fanciulla i cui capelli sono fiamme danzanti, che ai primordi dei tempi dono' agli uomini il segreto del fuoco e li salvo' dalle Bestie della Notte.
-Vedi qualcosa nel fuoco?- chiese Sursa a Parmane.
-Vedo un uomo, vestito di nero.
Sursa trattenne il respiro.
-Vedo una rocca, abitata solo da uccelli. E libri, tanti libri. Vedo qualcuno che tiene in mano un libro, lo sfoglia. Ma sono io!
Parmane sobbalzo', spaventato, e la visione che gli si era svelata nelle fiamme disparve. I suoi grandi occhi neri si volsero verso il mago.
-Non spaventarti-, disse Sursa con un sorriso. -Tua madre e' una veggente, vero?
-Si'.
Sursa annui'. -Hai lo stesso dono di tua madre, non c'e' niente di cui aver paura.
-Davvero, signore? Anch'io ho la vista come mia madre?
-Se nello stesso modo non saprei, ma di sicuro hai la capacita' di vedere cose che ai piu' sono celate.
"Descrivimi nei particolari cosa il fuoco ti ha mostrato.
E cosi' Parmane racconto' al mago cosa aveva visto. Gli racconto' di un uomo alto paludato in nere vesti, attorniato di strani oggetti, che gli si era mostrato solo per un breve istante prima che una lingua di fuoco lo avvolgesse e trasformasse nello strapiombo di un monte. Su questo strapiombo si affacciava una rocca circolare, con alte e robuste mura. Innumerevoli uccelli volavano in circolo sopra di essa, entrando e uscendo dalle sue strette finestre per raggiungere i nidi. E poi aveva visto se stesso, seduto in una stanza piena di libri, a sfogliare le pagine di un pesante tomo.
-Ma io non so leggere-, disse quasi scusandosi.
-A questo possiamo porre rimedio.
E dal giorno successivo Parmane aggiunse alle sue mansioni lo studio della parola scritta, che Sursa prese ad insegnargli personalmente usando l'alfabeto di Aiyapaal, il grande impero che dominava le terre dove sorge il sole, la cui lingua veniva usata da tutti commercianti delle coste dei Mari del Sud e del Mare di Mezzo e dagli studiosi di gran parte dei tre continenti affacciati sul Mare di Mezzo. A quell'epoica ben pochi popoli avevano sviluppato una lingua scritta, e meno ancora un alfabeto proprio, ma dato che quasi tutti, direttamente o indirettamente commerciavano col grande impero, in molti avevano fatta propria la sua lingua e il suo alfabeto, che usavano anche per scrivere il proprio linguaggio di origine.
Studente vorace e dal facile apprendimento, per la meta' dell' estate Parmane fu ammesso nel laboratorio di Sursa mentre questi vi si trovava all' opera. In grado gia' di leggere facilmente singole parole e semplici frasi come quelle scritte sulle etichette dei vasi di terracotta del laboratorio e della dispensa, il mago lasciava che il ragazzo lo aiutasse nel suo lavoro e apprendesse come mescolare le erbe, le radici e quelli che Sursa chiamava "succhi della terra".
Un giorno, durante il quale Sursa era impegnato in una preparazione piu' laboriosa del solito, Parmane incuriosito chiese di cosa si trattasse.
-Preparo una pozione per alleviare i dolori della figlia del Re.
Parmane aveva appreso qualcosa riguardo la situazione di Ancrisia, essendo presente mentre il mago parlava con i principali consiglieri del re, ma non aveva idee chiare al riguardo. Sapeva solo che la ragazza soffriva di una malattia sconosciuta che l'aveva deturpata e le provocava acute sofferenze.
-Se e' una pozione deve berla, giusto?
-E' una pozione da bere, si. Ma non e' Ancrisia che dovra' berla.
-Ah no?
Parmane era confuso, al che Sursa sorrise.
-La magia non sempre funziona per vie dirette, ma talvolta necessita di intermediari. Questa pozione dovra' berla qualcun altro perche' Ancrisia possa beneficiarne: qualcuno cosi' desideroso di alleviare le sue sofferenze al punto da essere disposto a farsene carico almeno in parte.
-Molti membri della sua famiglia saranno disposti a farlo.
Sursa divenne scuro in volto. -Non e' cosi' semplice. Quali membri, innanzitutto? Suo padre o sua madre? Sua madre e' preda della disperazione al punto da non credere in niente, ormai. E come potrei permettere che il Re venga distratto dai suoi compiti in questo momento? Ma, soprattutto, la persona che berra' la pozione deve essere desiderosa di accollarsi i dolori di Ancrisia nel profondo del suo cuore, perche' se non lo fosse non funzionerebbe. E neanche del cuore di un padre o di una madre si puo' essere realmente sicuri, perche' spesso i propri desideri piu' intimi si discostano, a nostra insaputa, da cio' che sappiamo bene per i nostri figli. Riesci a immaginare cosa accadrebbe se, data da bere la pozione a Carade, essa non sortisse alcun effetto? Cosa succederebbe all'animo del Re se dovesse scoprire che nel profondo del suo cuore non esiste realmente un amore per sua figlia cosi' grande come lui crede? Ne verrebbe distrutto, perche' l' Amore pensa di essere infinito e troppo spesso non lo e'. Ma e' anche incapace di guardare a se stesso ed ammettere i propri limiti, perche' non dovrebbe averne. E, cosi', l' Amore costretto a guardarsi per cio' che realmente e', si vede addirittura peggiore e inorridisce di se stesso, dimentica i suoi doveri e fugge le proprie responsabilita', ed inevitabilmente ne muore.
"No, non posso rischiare di fare questo a coloro che piu' amano Ancrisia e che devono essere il pilastro di questo piccolo regno.
Quella notte Parmane non prese sonno. Le parole di Sursa gli erano incomprensibili. Un Amore che in realta' non ama, o non ama abbastanza? Ripenso' ad accadimenti avvenuti sulle sue montagne, fra la povera gente che era la sua famiglia: sua madre che si gettava contro l'enorme cane di un pastore perche' aveva afferrato la piu' piccola delle sue sorelle; Anture lo Zoppo, che non sapeva nuotare, ma si era tuffato nel fiume in piena per salvare il figlioletto che vi era caduto giocando e che ne era uscito afferrandosi ad un grosso ramo; gli uomini del villaggio che insieme affrontavano una banda di razziatori ardinei. Quale padre o quale madre avrebbe fallito tale prova?
-Non sempre le nostre azioni corrispondono ai nostri desideri nascosti, nascosti anche a noi stessi perche' considerati sconvenienti-, gli aveva detto Sursa cercando di spiegargli il concetto. -Cio' che facciamo e' spesso condizionato dall'essere visti dagli altri uomini, o perche' riteniamo che sia giusto o doveroso farlo. Ma cio' non significa che desideriamo farlo. I guerrieri di Carade vanno in guerra per lui: combattono ed uccidono e muoiono, perche' ritengono che sia loro dovere fare cio' per il loro Re. Ma quanti di loro credi desiderino veramente morire? Quanti, potendo, liberi da vincoli e giuramenti, non sceglierebbero invece di vivere, di rimanere lontani dai pericoli?
E se Parmane pensava alla natura dell' Amore, cosi' come Sursa gliela aveva svelata, questi pensava alle visioni di Parmane cosi' come il ragazzo gliele aveva raccontate. L' Uomo Nero era certamente la figura che per prima gli era apparsa. Ma aveva visto cosi' poco e cosi' fuggevolmente che non poteva essere d'aiuto alcuno. La rocca circolare sul bordo di un precipizio, una rocca ormai abbandonata da tempo sufficiente a divenire rifugio per gli uccelli dei monti, non doveva essere cosi' difficile da scoprire quale fosse, se essa sorgeva in questa parte del mondo. E una rocca piena di libri, poi, era sicuramente unica.
La cosa singolare era che Parmane aveva visto se stesso nella biblioteca di quella rocca. E si era riconosciuto immediatamente, quindi vi si sarebbe trovato fra non molto tempo, prima che il suo aspetto venisse mutato dall' avanzare dell'eta', che' la giovinezza fuggiva velocemente a quei tempi. Ma sicuramente non prima che fosse in grado di leggere quel libro.
Ma la vera domanda era: in che modo Parmane, Ancrisia e l'Uomo Nero erano collegati? Il collegamento era indubbio, ma come i due uomini avrebbero agito nei confronti della giovane principessa? Con quali propositi Parmane avrebbe raggiunto la biblioteca racchiusa nella rocca sconosciuta? E vi si sarebbe recato inevitabilmente, indipendentemente dallo svolgersi degli eventi, oppure era suo compito, di Sursa il mago, far si' che il ragazzo vi si recasse?
Nei giorni successivi Sursa comincio' a cercare notizie di questa rocca, nei documenti piu' antichi, rotoli e quaderni cosi' usurati da sbriciolarsi per un tocco disattento, e nei piu' recenti resoconti di esploratori e mercanti. Ma non trovo' cenno alcuno, ne' nei crespi papiri giunti dall' est, ne' inciso con inchiostro ormai sbiadito sulle morbide cartapecore in uso fra le genti del nord del continente. Cosi' invio' un messaggio tramite un piccione al Bibliotecario di Rejkapur. La citta', sorta sul delta del grande fiume Apur, era gia' all'epoca centro delle rotte commerciali del Mare di Mezzo, e la sua biblioteca, custodita in una torre cosi' alta che dalle navi la si avvistava un giorno prima di vedere la costa, raccoglieva studiosi ed opere da tutto il mondo conosciuto, ed alcune provenienti da luoghi ben oltre il piu' lontano confine dell' Impero di Aiyapaal, da terre misteriose che si dicevano abitate ancora dalle razze preumane e luogo di prodigi e conoscenze che agli uomini erano state proibite dagli dei stessi.
I piccioni sono uccelli tenaci, resistenti e veloci nel volo, anche se dall' aspetto non pare lo siano. E sebbene siano una delle prede favorite dai falchi non sono certo una delle piu' facili. I piccioni allevati a Rejkapur, poi, erano di una specie che tutte queste caratteristiche le avevano intensificate. La risposta impiego' comunque dieci giorni a giungere, e il responsabile delle uccelliere consegno' a Sursa il messaggio del Bibliotecario piu' o meno al tempo in cui Maraco e Affium facevano il loro ingresso a Tinn-Iddinh.

Maraco e Affium presero alloggio in una locanda dentro le mura della citta', cercando di attrezzarsi nel modo piu' adeguato al viaggio verso Mezzogiorno. Giunti ai confini dei possedimenti Torod, dove nuove aspre terre disabitate e selvagge li avrebbero ancora divisi dai Dominii, avrebbero reclutato una guida. Ma non avevano tenuto conto dell'avidita' di quella gente, e fecero cosi' l'errore di far sapere di essere gli inviati di un Re e non solo dei viaggiatori solitari. Il proprietario della locanda penso' che gli emissari di un Re, per quanto piccolo e lontano, dovessero avere con se molto piu' di quello che gli avrebbe fruttato ospitarli alcune notti e procurargli le vettovaglie e vesti che avevano chiesto. Anche rubando sul prezzo. Cosi' chiamo' il Capo delle Guardie e disse che i due, dopo aver alloggiato per giorni nella sua locanda, erano stati uditi pianificare una fuga dalla citta' senza pagare il conto. E presento' una lunga lista di cibi e vini che i due avrebbero consumato e ancora non pagato.
Il Capo delle Guardie prese la lista, fece arrestare Maraco e Affium nottetempo e li trasse di fronte al magistrato senza che neanche i due capissero cosa stava accadendo. Il locandiere fu liquidato facendogli sapere che il giorno dell'arrivo degli stranieri era noto, ma dato che anche il Capo delle Guardie mirava ai loro beni, invece di scarcerarli muto' l'accusa in blasfemia. Di fronte al magistrato i due furono accusati da uomini che non avevano mai incontrato, sfaccendati che stavano tutto il giorno davanti alla Casa del Magistrato in attesa che l' Accusatore li reclutasse per testimoniare in una o l'altra delle tante pantomime che venivano recitate la' dove invece si sarebbe dovuta accertare la verita'; e il magistrato pronuncio' la condanna senza che i due potessero parlare per discolparsi. Li condanno' ad essere spogliati di tutti i loro beni, comprese le vesti che portavano addosso, in cambio delle quali avrebbero avuto una tunica di tessuto grossolano.
Affium, che aveva un carattere pronto all' ira, di fronte alle ingiustizie, udendo le parole del magistrato e comprendendo infine cosa stava accadendo, inizio' a urlare. Con un sorriso compiaciuto il magistrato fece un cenno ed un soldato colpi' Affium alla testa. Incredulo Maraco udi' le parole di una condanna nei confronti dell' incosciente Affium ad essere venduto come schiavo per risarcire il magistrato stesso dell'offesa subita, in quanto non aveva altre proprieta' con cui risarcire il danno se non se stesso.
Tutti i loro beni furono presi, compresa la lettera di accompagnamento che Carade aveva dato loro, che fu accantonata in un deposito in quanto a quell' epoca ci si curava poco degli emissari di un governante, se questo non era vicino e potente abbastanza da muoverti guerra. E i Torod piu' di ogni altro popolo non si curavano affatto degli stranieri, che per loro erano tutti nemici e verso i quali provavano solo o disprezzo o invidia, se non ambedue le emozioni insieme. Affium fu tratto in catene e portato via, mentre Maraco, a cui avevano dato una veste consunta, fu condotto fuori delle mura cittadine e gli fu concesso di riprendere il suo viaggio.
All' ombra di un boschetto in vista della citta' Maraco si fermo' a pensare alla sua situazione. Comprendendo appieno la natura avida di quella gente gli era chiaro che lo lasciavano proseguire verso Mezzogiorno per un motivo soltanto: doveva attraversare tutte le Terre dei Torod, privo di cibo o alcun che con cui pagarlo, e se avesse colto qualcosa da un campo o anche solo preso un pesce da un torrente che attraversava una proprieta', il proprietario avrebbe potuto accusarlo di furto e imprigionarlo a vita come schiavo. A tali uomini serviva solo una scusa per prendere cio' che era degli altri, e forse i piu' tale scusa erano pronti ad inventarla.
La sua missione si faceva sempre piu' priva di speranze, viste le condizioni in cui si trovava. Deciso a procurarsi qualcosa con cui sopravvivere e vendicare i torti subiti la' dove poteva, fece ritorno in citta', scalando nel buio della notte le mura. Raggiunse la locanda dove lui e Affium avevano preso alloggio, e preso un lungo coltello dalle cucine entro' nella camera del locandiere. Lo udi' lamentarsi con la moglie per il trattamento subito dal Capo delle Guardie, che si era spartito i beni degli stranieri col magistrato senza dare a lui niente, neanche la pigione per la notte che i due avevano passato nella locanda. Preso da un furia gelida, agendo velocemente, Maraco taglio' per primo la gola alla donna, e mentre il locandiere lo guardava incredulo, lo pugnalo' al cuore.
Pulitosi dal sangue frugo' nella camera, prendendo tutto cio' che di prezioso trovo', e le vesti e le armi che il locandiere doveva aver sottratto con l' inganno a qualche altro sfortunato straniero, perche' durante il suo viaggio nessuno, vedendolo con indosso la veste di un condannato e oro nella mano, lo potesse facilmente accusare di furto.
Lascio' la citta' per la stessa strada da cui era entrato, quindi si allontano' per una direzione diversa da quella che era stato visto prendere. E viaggio' cosi' per le Terre dei Torod, per lo piu' di notte per evitare incontri, e pieno di rabbia uccidendo quanti Torod incontrava a viaggiare da soli, derubandoli e nascondendo i loro corpi. E senza saperlo costrui' cosi' la sua futura rovina.
Raggiunse infine il confine di quelle terre, trovandosi di fronte al paesaggio aspro di una pianura costellata di rocce, con poca vegetazione e completamente priva di alberi. Un folto gruppo di grossi animali, simili a gatti ma grandi quanto il piu' grande cane da pastore lui avesse mai visto, si muoveva in distanza. Non c'era acqua in quella terra, per lo meno non dove lui era in grado di trovarla, ma solo pericolo. Era morte certa, l'avventurarvisi.
Domandandosi cosa fare, Maraco ripenso' alle parole del suo Re. "Il Monte delle Bestie si trova su una grande penisola, che e' l'ultima propaggine di quelle terre. Non distante dalla Citta' delle Ombre, il cui porto e' il piu' grande di questa parte del mondo." Un porto, quindi poteva raggiungere la citta' via mare. Ma quanto distava il mare? Dato che la cosa non aveva importanza, non avendo altra scelta, si incammino' verso l'Occaso, tenendosi a distanza dalla pianura selvaggia ma ancor di piu' dalle proprieta' dei Torod.
Cammino' per giorni, e quando il cambio dei venti gli disse che l'estate era finita, giunse in riva al mare. Maraco non lo aveva mai visto, ne aveva solo udito descrizioni da menestrelli girovaghi e mercanti. Ne aveva avvertito l'odore gia' da molto, un odore cosi' intenso che non poteva non capire che stava per giungere vicino a qualcosa di completamente diverso da tutto cio' che aveva fino a quel momento conosciuto. L'immensita' della massa d'acqua, il suo incessante e rumoroso movimento lo spaventarono, da principio, e se ne ristette a lungo a rimirarlo da lontano. Non poteva poi essere cosi' diverso da un lago, anche se non aveva mai neppure sognato un lago cosi' grande, si disse. Un lago dall'acqua velenosa, gli avevano detto, che non poteva essere bevuta. E la lunga distesa di sabbia bruna, che scompariva in dune dolci ad entrambi i suoi lati, priva di piante per una lunga distanza dalla linea dell'acqua, gli confermava che quell'acqua era velenosa.
Infine si avvio' verso Mezzogiorno, costeggiando la spiaggia, affranto senza neanche sapere perche', perche' non era uomo in grado di collegare quello stato d'animo alla sensazione di sentirsi piccolo a confronto di qualcosa che non aveva ne' voce ne' volonta' propria.

Quando Sursa lesse la risposta del Bibliotecario non fu affatto contento. Il Bibliotecario aveva con certezza riconosciuto la fortezza come un antico luogo conosciuto col nome di Rocca della Speranza. Era stato costruito ed era abitato dagli Elder, una razza preumana da sempre restia a mescolarsi con gli uomini ma non a questi avversa. Anzi, in piu' occasioni erano andati in loro soccorso, per poi tornare al loro isolamento. La Rocca della Speranza era stata uno dei loro piu' importanti insediamenti, luogo di raccolta di vaste conoscienze a cui chiunque bisognoso di aiuto poteva rivolgersi. La Rocca era lentamente scivolata nell'oblio: lontana dalle vie di scambio commerciale fra i popoli circostanti, fuori dalle aree piu' ricche e fertili, una lunga epoca di sommovimenti e migrazioni aveva cancellato tutte le strade che vi conducevano e infine anche la sua memoria. Al giorno d'oggi, scriveva il Bibliotecario, nessuno sa piu' dove essa sia con precisione, ma solo che ancora esiste, abitata dagli ultimi degli Elder, celata fra alte montagne.
Non piu' abitata, penso' cupo Sursa, ed accantono' spazientito il messaggio. Il Bibliotecario non gli era stato di grande aiuto. Neanche le supposizioni sui possibili siti in cui la fortezza fosse che aveva aggiunto in calce al messaggio lo erano. Il mago sapeva che il tempo cominciava a scarseggiare. Della missione di Maraco ed Affium non si avevano notizie, ma nessuno vi aveva mai riposto reale fiducia. E nel frattempo malumori ed invidie erano andate montando in citta'. Troppo spesso si udiva la parola ribellione, sussurrata nel buio o detta a mezza voce alla luce del giorno. Ben presto qualcuno l'avrebbe urlata nelle piazze.
Cosi' si decise a chiedere l'aiuto di qualcuno cui non avrebbe mai voluto chiederlo. Scese nel sotterraneo della casa, in una piccola stanza a cui ne' a Parmane ne' ad alcun' altra persona era permesso l'accesso. La porta che la chiudeva era robusta, bloccata da un grosso lucchetto e da un divieto che solo colui che lo aveva creato poteva sciogliere, oppure qualcuno dotato di un potere molto piu' grande. Nella stanza vi era uno scranno, intagliato nella roccia che era il fondamento della casa, ed ai suoi piedi una polla d'acqua nera e immota, un pozzo dai bordi irregolari scavato nella roccia madre.
Con una sensazione di oppressione al petto, Sursa accese un lume ad olio, poi ando' a sedersi sullo scranno. La fiamma gialla alimentata dall'olio emanava una luce calda e soffusa, che trasformava la figura del mago, seduto sul seggio di roccia ma proteso al di sopra delle acque immote, in un'ombra tremula e distorta, resa piu' grande sulla parete curva della stanza. Con parole sussurrate inizio' la sue evocazione, ripetendole in continuazione, sempre alla stessa velocita' e con la stessa tonalita' ed intonazione finche' qualcosa, nella profondita' buia della acque, prese a muoversi. Qualcosa che come un grosso pesce pesante si distacco' dal fondo lontano e risali' verso la voce in lenti circoli.
Lenta l'acqua si sollevo' ed assunse una forma vagamente umana, una figura le cui braccia erano attaccate ai fianchi e solo vagamente delineate, la testa priva di lineamenti e deformata dal ruscellare dell'acqua, che scorreva su tutta la superficie esterna tornando alla polla da cui si sollevava senza pero' incresparne la superficie.
Una risata chioccia risuono' nella piccola grotta, poi una voce dal tono canzonatorio, stridula e piena di malizia niente affatto velata, disse: -E cosi', alla fine, sei venuto a chiedere il mio aiuto.
Con un sospiro Sursa rispose:-Si, Maestro. Ho bisogno di risposte e il tempo non e' sufficiente per trovarle. Spero che mi aiuterete.
-Sai che non posso rifiutarti il mio aiuto-, disse sempre ridendo la voce che proveniva dalla figura d'acqua. -Tu stesso ponesti quel vincolo il giorno che mi lasciasti, diventando il mio piu' grande trionfo e la mia piu' grande sconfitta. Ma sai che mi prendero' il mio prezzo.
Sursa tremo' a queste ultime parole, dette quasi in un sibilo. Ricordava la rabbia del suo Maestro, il fuoco magico che aveva riempito le grotte che erano la loro casa sulle Punte Aguzze, il giorno in cui, avendo deciso di abbandonare la via meschina del suo insegnante, lo aveva preso ad un laccio pazientemente preparato e posto su di lui un vincolo per il quale non avrebbe potuto nuocergli in alcun modo, fosse anche rifiutandogli qualcosa di cui aveva bisogno. Il Maestro era un mago potente, carico dell'esperienza maturata durante una vita allungata artificialmente, e piuttosto che perdere un apprendista per cui aveva speso cosi' tanto addestrandolo lo avrebbe distrutto. Sursa avrebbe potuto semplicemente porre un divieto fra se e il Maestro, ma un po' per tema di rappresaglie indirette, un po' per spavalderia giovanile, era andato oltre creando un vincolo potente e ampio. Ma avrebbe dovuto aspettarsi dal suo Maestro la capacita' di infilarsi fra le pieghe del vincolo e annidarvisi per rovinarlo in qualche maniera, per avvelenare la vittoria di Sursa, rendere amaro il suo successo.
Al fuoco generato dalla rabbia, era seguita una risata, un cachinno cosi' forte che Sursa lo aveva udito a lungo e da grande distanza mentre scendeva dal monte. Un brivido gli aveva gelato la schiena. Il Maestro rideva di soddisfazione, perche' nessuno fra i vari apprendisti che aveva istruito nella sua lunga vita, prima di Sursa, era riuscito a sfuggire al suo controllo e alle sue rappresaglie, alle sue distruttive punizioni con le quali schiacciava ogni forma di insoburdinazione. E questo giovane non solo gli stava sfuggendo, ma addirittura lo aveva imbrigliato con un vincolo che non aveva possibilita' di spezzare.
Ma il Maestro non era uomo da sottostare ad altri, non avrebbe permesso a Sursa di sfruttare il suo aiuto impunemente, cosi' pose a sua volta un vincolo sul vincolo di Sursa. Un incanto cosi' sottile che Sursa tardo' ad accorgersene, qualcosa che col tempo avrebbe dato al Maestro la sua vendetta.
Seduto sullo scranno di pietra, le mani strette ai braccioli con cosi' tanta forza da sbiancarsi le nocche, Sursa tremo' in cuor suo, ma si sforzo' di parlare e fece la sua richiesta. -Ho bisogno di trovare la Rocca della Speranza.- Chiedere di piu' sarebbe stato inutile, lo sapeva: curare era qualcosa a cui il suo Maestro non si era mai interessato. Rigenerava se stesso rubando agli altri esseri viventi, guariva le proprie ferite caricandone qualcun altro; non avrebbe potuto aiutarlo in alcun modo a trovare una cura per Ancrisia. Ne' tanto meno un modo per mantenere il controllo del regno, dato che il suo potere si nutriva del disordine e della violenza. Semplicemente, era incapace di tali cose per natura.
Il Maestro rimase taciturno per un lungo tempo. Poi disse:-E cosi' ti stai interessando alle ossa degli Elder. O alla loro biblioteca. Non ne trarrai alcunche', qualsiasi cosa tu stia cercando di fare. Neanche riuscirai ad accedere alle sale dei Figli Piu' Grandi.
"Troverai la loro ultima casa a meta' strada fra l'alba e il tramonto, dove il terebinto affonda le radici nelle acque amare e gli uomini salutano sfiorandosi le labbra con la punta delle dita. Fra le montagne di quella terra, celata in un sogno d'oppio, una porta conduce oltre cio' che mostra. Varca questa porta e sarai sotto le mura della Rocca della Speranza.
Prima che l'eco dell'ultima parola si spegnesse la figura d'acqua collasso', la massa d'acqua perse la spinta verso l'alto e cedette crollando su stessa, ritornando interamente alla polla la cui superficie solo per breve tempo si agito', tornando rapidamente all'immobilita'.
Sursa lascio' andare il fiato, il peso al petto che andava mutando nella sensazione di una mancanza. Cosa si e' preso questa volta? si chiese amaramente. Quale parte di me? Sapeva che ben presto lo avrebbe scoperto, si sarebbe reso conto che una lacuna si era formata nei suoi ricordi, che eventi e nomi e conoscenze acquisite in un determinato periodo della sua vita erano svaniti. Sursa aveva chiesto l'aiuto del Maestro alcuni anni dopo averlo lasciato. Aveva ottenuto cio' che gli serviva, ma da quel momento aveva avvertito una sensazione che non era in grado di descrivere. Dopo molto tempo si era reso conto che non riusciva piu' a ricordare alcuni anni della sua infanzia. Ma non aveva collegato la cosa al suo Maestro, ed era ricorso nuovamente al suo aiuto, essendosi trovato in pericolo. Questa volta aveva perso il ricordo di una ragazza che aveva amato nella sua giovinezza. Era impossibile, a quel punto, ignorare il collegamento fra i ricordi persi e l'aiuto ottenuto dal Maestro. Non era ricorso piu' a lui per circa dieci anni, fin quando si era trovato ad affrontare tre maghi che il Maestro aveva addestrato molto tempo prima di prendere lui come apprendista. Nessuno dei tre era al suo pari, ma insieme erano riusciti a soverchiarlo e ben presto lo avrebbero annichilito. L'unico modo di sopravvivere era ottenere informazioni riguardo i tre dal Maestro, e con l'occasione gli aveva posto la domanda, si era fatto dire come aveva fatto a sottrargli i ricordi, nonostante il vincolo che gli aveva imposto.
-Proprio il tuo vincolo richiede tu ceda qualcosa-, rispose il Maestro. -Si' potente artificio richiede un prezzo per sostentarsi. Io ho soltanto definito le caratteristiche di questo prezzo, inserendo dei lemmata fra le maglie del tuo vincolo, troppo grande per non avere dei varchi. Ogni qualvolta io daro' qualcosa a te, tu dovrai cedere qualcosa di intimamente tuo a me, di pari valore e importanza.
Dopo quel terzo aiuto Sursa si era reso conto che un intero anno di studi era scomparso dalla sua mente: si era scoperto incapace di compiere artifici non complessi, o incapace di ricordare il perche' qualcosa avveniva in una determinata maniera.
E se le conoscienze di scienza e magia aveva potuto rimpiazzarle studiando nuovamente cio' che aveva dimenticato, cosi' non poteva essere per i ricordi della sua vita. Quelli non poteva viverli una seconda volta ed erano per sempre perduti. Ricorrere all'aiuto del Maestro, quindi, avrebbe significato distruggere se stesso un pezzo alla volta, fornendo al Maestro quella vittoria finale che il vincolo stesso era mirato ad impedire. Il vincolo, creato da Sursa per difendersi, era divenuto anche l'arma per distruggerlo.
I giorni trascorsero pesanti, dopo quel faccia a faccia: Sursa riportava alla mente fatti e conoscenze, cercando di capire cosa mancasse; Parmane si trascinava fra i suoi compiti, come stordito ma senza capirne il motivo. Fin quando, un giorno, assolvendo ad un incarico del suo maestro, si reco' in uno dei giardini interni della casa di Carade. Doveva solo raccogliere una pietra che era stata posta vicino ad una fontana, una pietra messa in una particolare posizione alcuni giorni prima da Sursa stesso perche' si caricasse dell'energia necessaria ad un incanto. Parmane non sapeva che quel giardino faceva parte delle stanze private di Ancrisia e non si aspettava di trovarvi alcuno. Rimase interdetto quando si rese conto che qualcuno stava seduto sul bordo della fontana, ed era sul punto di tornare indietro per non disturbare la persona quando si rese conto che si trattava di una ragazza. Una ragazza che, usando una ciotola di legno, prendeva acqua dalla fontana con gesti lenti e misurati, per versarsela sulle membra e sul collo, non nell'atto di lavarsi, ma semplicemente per bagnarsi, come volendo rinfrescarsi sebbene le giornate non fossero piu' cosi' calde. Come nella visione avuta il giorno che aveva incontrato Sursa.
Incuriosito, si avvicino' a lenti passi, cercando di non far rumore. Un soffocato singhiozzare giunse alle sue orecchie. Comprendendo che la ragazza stava piangendo, Parmane dimentico' ogni altra cosa: il motivo per cui era li', la possibilita' di essere punito per aver avvicinato un membro della famiglia reale. Quando Parmane le fu vicino, la ragazza volse il viso verso di lui: lacrime scorrevano lente, andando a perdersi lungo la gola, mentre con gesti misurati e meccanici, riempiva la ciotola di legno nella polla della fonte, la sollevava e si versava l'acqua ora su un braccio, ora su una gamba o una spalla. Gli occhi chiari di lei erano sgranati e pieni di sofferenza: sebbene guardasse nella sua direzione, era chiaro a Parmane che non lo vedeva veramente.
-Perche'?- chiese lei, e Parmane sussulto' non aspettandosi gli rivolgesse la parola. -Perche' deve fare cosi' male?
-Io...io... non... lo so-, balbetto' Parmane.
-Fa male. Tanto.
Nella voce di lei c'era cosi' tanta sofferenza che il cuore di Parmane ne fu straziato: lo senti' contrarsi dolorosamente, come se una mano incorporea lo avesse stretto nella sua morsa,. Una tristezza profonda calo' su di lui. Lei piangeva e lo fissava senza vederlo realmente, continuando a chiedere “perche'?” e lui realizzo' quanto fosse impotente, quanto gli eventi fossero troppo spesso al di fuori della sua portata.
Con questo dolore in cuore e questa sensazione di impotenza in mente, Parmane rimase vicino ad Ancrisia per lungo tempo, vergognoso di andarsene lasciandola sola al suo dolore, pur sapendo che niente poteva fare e il tempo speso li' non era utile neppure alla principessa.
Infine, dopo quanto tempo non avrebbe saputo dire, la lascio', tornando mesto verso la casa del suo maestro, senza aver preso la pietra per cui si era recato in quel giardino.
Quando Sursa lo vide rientrare comprese subito la grandezza del turbamento del ragazzo. Non gli chiese niente, tanto meno della pietra che ormai era rimasta esposta per piu' del tempo necessario all' incanto, ma lo fece sedere a tavola e gli servi' la cena. Parmane la mangio' senza proferire parola, poi si diresse al suo pagliericcio dove rimase a girarsi tutta la notte.
Nei giorni seguenti Sursa lo sollevo' tacitamente da ogni suo incarico, limitandosi ad impartigli solo le consuete lezioni, che Parmane pero' seguiva distrattamente. Finche' la sera del terzo giorno dopo l'incontro con Ancrisia, Parmane si ritrovo' solo nel laboratorio. L'ampolla con la pozione per guarire Ancrisia di fronte a lui.
Questa pozione dovra' berla qualcuno cosi' desideroso di alleviare le sue sofferenze al punto da essere disposto a farsene carico almeno in parte”, cosi' aveva detto Sursa. Tutte la parole che il mago gli aveva detto quel giorno erano impresse nella sua mente.
Senza esitazioni Parmane prese l'ampolla, ne tolse il tappo di cera d'api e ne bevve un liungo sorso. Non c'era cura conosciuta, per la malattia di Ancrisia, in quel momento lui ne era pienamente cosciente. Ma non poteva importargliene di meno. Se il dolore della ragazza era colpa del ludibrio degli dei, lo avrebbe affrontato insieme a lei, se le era stato fatto carico di una colpa non sua, avrebbero condiviso la punizione. Semplicemente non era giusto che l'universo permettesse che un singolo essere umano fosse caricto di tale peso. Quindi rimase in attesa, mentre risigillava l'ampolla con la cera, chiedendosi cosa dovesse accadere.
Lo scopri' quella sera, mentre cercava di prendere sonno: la pelle di tutto il corpo comincio' a bruciare, fino ad ardere come per la febbre alta. Il contatto della pelle coi vestiti o la superficie del pagliericcio gli era insopportabile. Era come se qualcosa bruciasse la sua pelle dall'interno, un'energia malefica che cercasse di uscire e distruggesse la sua pelle nel passarvi attraverso.
La notte trascorse nel tormento, spesso con fitte acute all'addome che lo lasciavano senza fiato, col sangue che si surriscaldava e la pelle straziata da vampate cosi' intense di calore che gli pareva di essere finito su delle braci ardenti. Ma neppure per un momento, neanche nella sua parte piu' profonda, intima e segreta, Parmane si penti' di cio' che aveva fatto. Lui non se ne rese mai conto, ma forse neppure il piu' grande eroe della storia del regno di Tannaria, avrebbe affrontato tale prova, con la consapevolezza che forse non sarebbe finita fino alla sua morte, con tale disinteresse per se stesso.
Il mattino giunse ammantato di luce perlacea, e con essa Sursa e la notizia che quella notte Ancrisia aveva avuto un inaspettato miglioramento: I dolori non erano scomparsi, non del tutto, ma si erano cosi' affievoliti che la ragazza era tornata a fare una vita pressoche' normale. Una gioia che non si aspettava di provare riempi' il cuore di Parmane, che dimentico' la svogliatezza dei giorni precedenti, nascose al meglio il dolore che provava, e si rituffo' nei suoi compiti quotidiani, svolgendo loro e le lezioni che Sursa gli impartiva con raddoppiato vigore.
In realta' Sursa si rese conto di cio' che era successo. Di certo non poteva sfuggirgli che il contenuto dell'ampolla era diminuito, e sebbene Parmane si sforzasse di nasconderli, i segni e le smorfie di dolore erano fin troppo evidenti. Ma mai un momento parmane lascio' che il dolore lo distogliesse da cio' che doveva fare, fin quando esso divenne un motivo di sottofondo della sua vita, una parte d'essa che sempre c'era stata e gli aveva anche fatto compagnia. La memoria di giorni privi di dolore scomparve.
E cosi', con gli studi di Parmane che presero a procedere con velocita' superiore, con Ancrisia tornata alla vita pubblica e le voci di ribellione soffiate via, almeno cosi' sembrava, dai primi venti umidi dell'Occaso, si giunse all'autunno.

In autunno Maraco giunse alla Citta' delle Ombre, sbarcando da una piccola galea nel porto dell'immensa citta'.

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